Commercianti di franfellicchi


Perché un sito sui commercianti di franfellicchi? 

Per rincorrere il nostalgico  mondo dell’infanzia dei nostri nonni. E dei nonni dei nostri nonni. E de tu nonno. Mio nonno divenne molto ricco perché era un commerciante di franfellicchi come dice una famosa canzoncina popolare

mio nonno molto ricco 
commerciante ‘e franfellicchi

e delle cosi dette “lengue ‘e Manelik” che egli vendeva sul suo carrozzino ambulante in villa comunale ai bambini poveri che dai vicoli della torretta si riversavano in villa. Ma anche i figli dei ricchi signori o dei più modesti impiegati che venivano in villa riversandosi dai palazzi nobiliari della via Chiaia e della via Caracciolo. Eravamo nella Napoli dei primi anni del Novecento. Affascinanti signore facevano la loro passeggiata in villa nei loro lunghi abiti bianchi. Ma ci inoltriamo anche nella Napoli della fine degli anni sessanta e dei primi anni settanta del Novecento quando le mie zie mi portavano in villa comunale. Esse in realtà si vergognavano un po’ del suocero che ancora esercitava il mestiere dell’ambulante e tentavano di non condurmici. Le mie zie materne invece che erano molto più popolane e quindi più democratiche non si facevano scrupolo di avvicinarsi al loro papà e allora mio nonno prendeva una lingua di Menelik e un franfellicco e tentava di ficcarmeli in bocca, con mia madre o con un altra zia sempre sorella di mia madre che mi manteneva in braccio.  A me, bambino nato ormai tra la fine di un vecchio mondo e l’inizio di un altro, questi gusti di un tempo che furono non mi allettavano molto. E che supplizio era per me era dividermi tra il nuovo e il vecchio mondo fino a quando mio nonno non se ne andò all’altro mondo. Per ricostruire questo piccolo mondo perduto siamo andati a intervistare quei vecchi che da bambini si recavano a rifornirsi di tali articoli merceologici.

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La fontana dei papiri in un dipinto dell’Ottocento.

È una bellissima giornata di sole a Napoli nell’Ottocento post-unitario e ci troviamo in villa comunale.

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Pulcinella vendicato dagli incanti di Virgilio in un uovo di Sirena

Pulcinella vendicato dagli incanti di Virgilio in un uovo di Sirena.

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‘O buglio ‘e ciucculata.

‘O buglio ‘e ciucculata. ‘O buglio ‘e ciucculata, è una cara vecchia espressione napoletana con cui nel buon tempo antico si usava indicare la tavoletta di cioccolata e che ora nel 2012 solo una deficiente come mia zia può ancora usare. La parola buglio mi lascia però pensare non ad una forma a tavoletta ma ad una forma sferica. Me la immagino mentre quell’imbecille schizofrenico di mio cugino se la mette tutta in bocca, una sfera di scadente cioccolato al latte di ben dieci centimetri di diametro, e comincia a succhiarsi tenendosela tutta in bocca, ripetendo con tutta la bocca piena l’espressione “‘o buglio ‘e ciucculata”.

“Patrizio, che ti stai mangiando?” chiederei a mio cugino; ed egli mi risponderebbe con tutta la bocca piena, lo sguardo assente del dissociato, la faccia chiatta e liscia senza espressione:”‘O buglio ‘e ciucculata” mentre un rivolo di cioccolata comincerebbe a colargli dalla bocca, un rivolo di scadente cioccolata al latte di un colore tra il nero rosso e marrone gli comincerebbe a colargli dalla bocca, gli scenderebbe lungo il mento, continuerebbe la sua lenta ma inarrestabile avanzata lungo il collo; il primo rivolo si arresterebbe al mento ma poi il secondo troverebbe la strada spianata, ripercorrerebbe il primo tratto seguendone le orme ma poi scivolerebbe più in basso. Dapprima il rivolo colerebbe alla sua destra perché il lato destro di solito è, per chi non è mancino, e non è il caso di Patrizio mio cugino, il più forte e quindi sarebbe dal lato destro che Patrizio comincerebbe a dargli sotto per distruggere il maledetto buglio che si sarebbe ficcato tutto in bocca, ma poi un po’ perché il buglio si sarebbe ammorbidito e un po’ per dar un po’ di riposo al lato che tanto ha faticato, lo passerebbe al lato sinistro, tenendoselo un po’ al centro mentre alla mia domanda:

“Patrizio, che ti stai mangiando?”  

 Risponderebbe come un deficiente con la bocca piena : “‘O buglio ‘e ciucculata”.

E poi passandoselo a sinistra comincerebbe a colargli anche a sinistra, un rivolo della stessa liquida e colorata consistenza che Patrizio emetterebbe dalle pacche del culo quando sedendosi sulla tazza del cesso perché preso da indicibili e stringenti dolor di pancia, gli uscirebbe non appena seduto senza sforzo alcuno dalle sue pelose e cadenti pacche, un liquido che tingerebbe le pareti interne della porcellana del cesso dello stesso colore che avrebbe tinto la sua faccia. E la mamma di Patrizio cosa farebbe? Quella deficiente di mia zia si accorgerebbe solo a colata avanzata dell’avvenimento pur essendo ella seduta a capotavola proprio di fronte al posto del figlio Patrizio, anch’egli seduto a capotavola perché ha preso il posto che era del padre che è venuto a mancare. E mia zia gli direbbe:”Patrizioooo, se sta sciuglienno tutt’’o buglio ‘e ciucculata che tiene mmocca e te sta scurrenno p’’a vavera: piglia ‘o fazzuleto e anniettete”

Mio cugino a quel punto si vedrebbe perso, non saprebbe cosa fare, avrebbe un momento di mancata coordinazione psicomotoria, attribuendo la sua difficoltà a sciogliere il buglio alla difficoltà di trovare un fazzoletto di carta per pulirsi la bocca, non riuscirebbe ad utilizzare le mani per prendere un fazzoletto che starebbe sulla tavola proprio di fronte a lui, e dopo essersi piazzato il buglio in varie parti della bocca, gonfiando a dismisura la parte superiore della bocca, sul posto dove crescono i baffi, gonfierebbe anche le dita della mano che diventerebbe uno strumento monco e privo di vita, per cui non saprebbe utilizzare il fazzoletto per pulirsi la bocca e così io dovrei aiutarlo. Patrizio allora non farebbe altro che mettere in avanti la testa, unire le labbra e sporgerle in avanti come per darmi un bacio e chiudendo gli occhi si farebbe pulire la bocca, con un atto di sottomissione con cui si calerebbe i pantaloni per farselo mettere in culo dal primo frocio che trova, ecco perché a me ha sempre fatto schifo pulirgli la bocca quando se la sporcava. Quelle due o tre volte che sono stato costretto a farlo quando stavamo a Venezia dopo che si era mangiato un gelato perché egli non riusciva a pulirsi la colatura del gelato sulle labbra e sul mento è stata una cosa che mi ha fortemente ripugnato e fatto schifo. Ho letto sempre in lui quest’atto come di sottomissione sessuale. “’O buglio ‘e ciucculata”. “Mammà, m’’o pozzo mangià ‘o buglio ‘e ciucculata?”.

Patrizio è un ragazzo educato, allevato con i princìpii di un tempo, di un tempo antico, ogni cosa che deve fare, lo chiede sempre alla mamma. È una sua antica abitudine che ha imparato da piccolo e che ha portato con sé nel tempo e che conserva ancora oggi all’età di 48 anni. Quando io e lui siamo andati a Venezia e non c’era la mamma lo chiedeva a me. Ma quando sta a casa e c’è la mamma lo chiede alla mamma.

“Mammà, m’’o pozzo piglià ‘o buglio ‘e ciucculata?”

La mamma gli risponde di no.

“Patrizio, tu he ditto ch’he fatto ‘a diarrea, te vuò magnà ‘o buglio?”

“Eh, aggiu fatto ‘a diarrea, e allora nun m’’o pozzo mangià ‘o buglio?”

“E no, Patrizio, o si no ‘a sciorda te vene ancora cchiù assaie…”

In realtà a zia Maria delle evacuazioni di suo figlio al cesso non gliene può fregare di meno, a mia zia interessa soltanto che il buglio di cioccolata lo si conservi per l’altro figlio suo, Giggino, deficiente completo, fratello di Patrizio. Cuore di mamma. Cosa non farebbe una mamma per i suoi figli, soprattutto per colui che ha più bisogno d’aiuto, anche tutta la pensione spenderebbe per suo figlio.

“Amè, siente, tu he ccattà ‘nu buglio ‘e ciucculata pe Giggino, pecchè chillo Giggino ‘o vò e po’ m’’o cerca quann’è ‘a sera e i po’ comme ci ‘o vaco a accattà?”. Come tutti i cervelli di gallina anche mia zia è molto pedissequa quando parla di cose ovvie, per non perdere il filo, e dopo aver fatto questa fatica improba è anche un po’ affaticata.

Adesso però vorrei parlare delle mani di Patrizio. Le mani di Patrizio sono le mani di uno che non ha mai fatto un cazzo, a parte forse mangiare, prendersi il pesce in mano per pisciare o per tirarsi una sega o per mettersele nel naso per scaccolarsi. Una volta gli ho dato tre bicchieri in mano per farglieli mettere a tavola. Lui ha preso il primo bicchiere poi il secondo, al terzo ha avuto la sua grande difficoltà, ma poi è riuscito a condurre i bicchieri a tavola senza farli cadere e senza farli rompere. E a questo punto ho per la prima volta osservato le mani di Patrizio da vicino e le ho viste molli, bianche, prive di vita, di energia, come atrofizzate, sono anche belle mani ma diventano brutte, le mani sono scialbe come lui. Il suo è il pallore dei viscidi, probabilmente in una delle sue vite precedenti Patrizio è stato un ufficiale o un sottufficiale delle SS. Me lo immagino nella sua divisa grigio-verde ben ordinata quanto scialba ed insignificante. Patrizio si è arruolato nelle SS senza sapere quello che cazzo stava a fare, ha potuto sfogare tutta la sua rabbia e la sua paura repressa di schizofrenico, è un totale inetto ma sa obbedire molto bene anzi lecca il culo alla perfezione, è prono alla disciplina, la sua innata omosessualità e la presenza di un padre dispotico lo fa ricercare una figura paterna che egli vede in modo totale nel superiore con la divisa sotto il quale è ai suoi ordini. È un inetto ma sa obbedire e proprio perché è insignificante può fare una certa carriera ma in un posto in cui fa più da intermediario a riferire ordini di qualcun altro che non a darne di propri. I suoi sotto posti lo prendono per culo, obbediscono ai suoi ordini perché sanno che non sono i suoi, ma le loro urla di giubilo e di entusiasmo sono fatte apposta per spaventarlo e non per inneggiarlo come gli vogliono far credere. Patrizio non lo capisce o fa finta di non capirlo, ma dentro di lui ne è spaventato. Poi gli eventi precipitano. Patrizio viene mandato di stanza nel nord Italia. Qui la lotta partigiana infuria e prende piede. Patrizio ha una paura fottuta, deve scoprire chi sono i partigiani, dove si nascondono, ma le torture che infligge agli antifascisti sono soltanto feroci senza essere intelligenti. Non sa come interrogarli o cosa chiedere. Ma è un modo come un altro per esorcizzare la propria paura, sfogare la propria rabbia di schizofrenico, ma Patrizio ha orrore delle torture che infligge, passata la rabbia non ha la freddezza chirurgica e criminale per assistervi. È un inetto anche ad interrogare sotto tortura. E così deve ingoiare le sue pilloline. I suoi sotto posti che praticano la tortura lo capiscono e allora fanno ancora più male all’interrogato per il gusto macabro di fare inorridire il loro capo. Era come quando gli lanciavano il loro grido di giubilo per spaventarlo. Poi Patrizio sarà catturato dai partigiani. Si inginocchia ai piedi di uno di questi che ha contro di lui puntata una pistola. Piange e trema in maniera spasmodica e convulsa, è un bambino che se la fa sotto, prende le mani del partigiano e comincia a baciargliele. E allora il partigiano non è contento, ma si eccita da matti a vedere un ufficialetto delle SS sottomesso a quel modo e con una paura incontrollabile. La sua soddisfazione di uomo e di guerriero e di militante partigiano e comunista è al culmine, il cazzo gli si rizza, il bell’ufficialetto tutto biondo e glabro, è un efebo, ha sembianze femminee. Il partigiano tira fuori il suo uccello e Patrizio non esita a prenderglielo in bocca e a succhiargielo. Il partigiano gli arriva in bocca e  dando i suoi sussulti di ventre, con una mano prende la testa dell’ufficialetto delle SS afferrandogli i bei capelli biondi, e se la tira tutta sul pube mettendogli in bocca tutto il suo cazzo mentre lo sperma comincia a colargli lungo il mento. Il partigiano, allora, con l’altra mano gli appoggia la canna della pistola alla tempia, gliela preme tutta contro e con un sol colpo gli fa saltare le cervella sporcandosi tutta la mano con sangue e frammenti di cranio e di cervello. È facilissimo sbagliare mira, far partire un colpo senza volerlo e far si che esso diventi pericoloso per i propri compagni. È per questo che il partigiano gli ha premuto la canna sul cranio, per non sbagliare la mira.  

Ma anche di un’altra vita precedente di Patrizio voglio parlarvi. La vita in cui egli era un animale insieme alla mamma, al fratello e al padre. Insieme essi costituivano il vanto del mio giardino zoologico. Io ero un principe del Rinascimento fiorentino o siciliano e invitavo i par miei nel mio serraglio. La scimmietta aveva preso a cuore le sorti del pappagallino Giggino dopo che a costui gli ho ammazzato il papà pappagalino. L’ho dovuto fare, mi aveva beccato la mano ferendomela col suo becco vorace. Forse non ha nemmeno pizzicato la mia mano, forse ha pizzicato quella di una gentil donzella. Fatto sta che per punirlo ho dovuto tirargli il collo. I figlioletti erano troppo piccoli e questo episodio ha sortito due diversi e opposti effetti. Il cuccioletto più piccolo, giggino, è quasi impazzito dal dolore, il pappagallino patrizio era invece più grandicello e quindi ogni qualvolta io lo ghermisco nelle mie mani, impazzisce dalla paura e non fa altro che fare attenzione a non farmi del male, anzi si china ligio e obbediente, mangia dalla mia mano, e fa attenzione a non pizzicarmi. Giggino è invece rimasto traumatizzato, scioccato, non proferisce verso non canta più. Il suo è un canto monotono, smorzato, racchiuso nel gargarozzo. Di tanto in tanto però il pappagallo giggino alza e abbassa le ali con ritmo frenetico e con tale forza tanto da non poter alzarsi a volare, lancia i suoi gridi, apre tutti gli occhi e gonfia le gote. Il pappagallino patrizio allora comincia a beccarlo. Perché ha paura di sentirlo gridare, perché risente in quel grido il grido di dolore di suo papà pappagallino mentre gli veniva tirato il collo e perché lui non poteva far nulla per salvarlo, ed è il grido che gli ricorda la sua incapacità e inettitudine. La sua impotenza. La sua viltà. E per sentirsi forte e sfogare rabbia e paura comincia a beccarlo.     

La storia di questa famiglia è davvero singolare. Mia zia si sposò a 30 anni, un qualcosa come 50 anni fa con Antonio, un infermiere deficiente e non molto sano di mente. Essi si innamorarono a prima vista e dopo tre anni di fidanzamento si sposarono. Mio nonno non voleva. Era anche lui infermiere e leggendo molti libri di medicina perché appassionato della materia aveva individuato nel suo futuro genero la struttura fisica e la facies del malato di sifilide. Invano gliela mostrava alla figlia. Con libro alla mano gli mostrava una persona malata di sifilide in tutto e per tutto somigliantissima a zio Tonino, anzi sembrava proprio che gli avessero fatto la fotografia, il ritratto, ‘o tale e quale insomma. Ma mia zia non voleva vederla. Ammaliata dal suo fascino continuava a non capire.

“Ma che ci azzecca? Chillo è uno che sta ncopp’’o libro. E io mica m’aggia spusà a chistu ccà che sta ncopp’’o libro, i m’aggia spusà a Tonino. Chisto mica è Tonino”

Come tutte le menti semplici mia zia non era dotata di capacità di astrazione. 

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Il cellulare perduto.

Il cellulare perduto. Mia madre ha poca dimestichezza con il cellulare e tutti gli altri aggeggi elettronici. Una volta le feci uno scherzo, la chiamai sul cellulare, contraffai la voce e feci credere di essere un maresciallo di una stazione di carabinieri.

“Mi scusi signora siamo la stazione dei carabinieri, volevamo sapere se è suo il seguente numero di cellulare 333 ecc.

“Si, si è mio, mi pare che è mio.

“No perché vede noi abbiamo trovato il suo cellulare e la stiamo chiamando proprio su questo numero di cellulare che lei ha perso e siccome ci ha risposto lei, allora non c’è dubbio che il cellulare che lei aveva perso e su cui noi la stiamo chiamando deve essere proprio il suo”

E certo e se mi state chiamando su questo numero significa che il cellulare che avete trovato deve essere il mio

“Aspetti un attimo signora adesso le passo il maresciallo della stazione.”

Un attimo di pausa e poi:”Mi scusi signora lei ha perso il suo cellulare e noi la stiamo chiamando qui per dirle che l’abbiamo ritrovato a piazza del Plebiscito. Lei dovrebbe venire e prenderselo al più presto”

E mia madre che teneva in mano e parlava con il cellulare che aveva perso ringraziava pure:”Ah grazie, grazie, io perciò non lo trovavo”

Quando io poi ritornai a casa mia madre mi disse:”Giusè, hanno chiammato ‘e carabiniere e m’hanno ditto c’aggiu perzo ‘o cellulare e ca me l’aggia i a piglià…”

“Mammà saccio già tutto cose” e subito le diedi il suo cellulare che lei aveva messo sul tavolo.

“E comme he fatto?”

E chilli ‘e carabinieri adoppo ca t’hanno chiammato a te m’hanno chiammato a mme e i me l’aggiu juto a piglià”

“Menu male, menu male ca l’hanno truato ‘e carabinieri o si no i nun ‘o truavo cchiù” 

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